Coppie omosessuali?
di
Don Domenico Pezzini
Animatore del gruppo di cristiani omosessuali “La Fonte”, Milano
Mi si chiede di esprimere alcune valutazioni sull’articolo che Gianni Geraci ha dedicato alle coppie omosessuali. Riconosco che l’argomento è spinoso, e che nell’analizzare la questione, come ha detto bene Gianni, tutti usiamo degli “occhiali”: a seconda delle lenti si vedono cose diverse. Questo non significa che non esista una verità unica e uguale per tutti. Si vuol dire soltanto almeno un paio di cose: 1. che, soprattutto quando si tratta di valutazioni di ordine morale, nessuno ha in tasca la verità assoluta fatta una volta per tutte, e dunque si deve sempre avere un senso relativo di ciò che crediamo e si deve comunque restare in atteggiamento di ricerca; 2. che nel valutare i comportamenti è importante prendere in seria considerazione la situazione delle persone direttamente implicate, e non giudicare situazioni che ci sono estranee a partire da quelle che viviamo noi: questo sarebbe pretendere di imporre agli altri i nostri occhiali!
Basta poco per accorgersi che la comprensione e interpretazione di certe situazioni di vita è “mobile”. La cosa è del tutto evidente nel modo di leggere la condizione omosessuale, per rimanere al di dentro del tema che qui interessa. Sono stati fatti alcuni passi che pian piano hanno mutato, e in misura consistente, la maniera di vedere le cose. Quando ho fatto la mia teologia morale, alla fine degli anni cinquanta, i testi parlavano solo di “sodomia” e si riferivano a un certo tipo di rapporto sessuale giudicato “innaturale”; di riflesso l’omosessuale era descritto come pervertito, malato, ecc. Al centro di questa valutazione c’erano gli “atti”, con l’implicito che tali azioni erano comportamenti perversi di una persona che era “per natura” eterosessuale.
Da questa visione delle cose si è passati, anche sotto l’influsso delle scienze umane, e grazie a un maggiore ascolto delle persone, a convincersi che vengono al mondo alcuni che “per natura” sono omosessuali, nel senso che c’è in loro una tendenza innata che li porta a relazionarsi affettivamente e sessualmente con persone del loro sesso. Tale visione delle cose, o, per rimanere nella metafora iniziale, tale “paio di occhiali” è stato recepito nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, dove si dice al n. 2358 che “un numero non trascurabile di uomini e donne presenta tendenze omosessuali innate” (“profondamente radicate” secondo la versione del 1997), e che “la genesi psichica di tale tendenza rimane in gran parte inspiegabile” (n. 2357). I corsivi sono miei. Nessuno che non sia cieco può far finta di non vedere il profondo mutamento di prospettiva intervenuto rispetto alla “sodomia” di cui si diceva. In gioco non ci sono degli “atti” che chiunque compirebbe quando gli viene voglia, ma una “condizione esistenziale” qualcosa che coinvolge la persona nella sua totalità e contribuisce a determinarne l’identità. La “tendenza” infatti esprime ciò che una persona prova come un bisogno di fondo, appagato il quale si sente felice.
Questo non risolve tutti i problemi: sappiamo che ci sono in noi tendenze storte, che suscitano una illusione di felicità e che vanno governate e contrastate. Per qualcuno la tendenza omosessuale appartiene a questo genere. Qui però si apre un’altra questione. Molti, purtroppo, amano ancora pensare che l’omosessuale sia una persona cui interessa solo il sesso, fatto in un certo modo. L’ascolto dei diretti interessati rivela invece ben altro. C’è nell’omosessuale, come in tutti, un grande bisogno di affetto, di tenerezza, di amicizia, di amore, e insieme c’è in lui la sensazione che tale bisogno trovi la risposta più piena in una persona del suo sesso. Questo non vuol dire che l’omosessuale non sia capace di vivere amicizie intense anche con persone di sesso diverso: vuol dire solo che egli si sente appagato a tutti i livelli in un rapporto con uno/una del suo sesso. Capire questo ci fa fare un altro passo importante.
Riassumo. Il primo passo consiste nell’uscire da una visione che riduce l’omosessualità a certe pratiche genitali per ricondurla a una dimensione di tutta la persona: mente, immaginazione, cuore, affetto, e, beninteso, corpo. Il secondo passo consiste nel capire che, come si è ricordato, tale condizione è innata: non è colpa dell’omosessuale essere quello che è, o per dirla ancora con il Catechismo della Chiesa Cattolica, gli omosessuali “non scelgono la loro condizione” (n. 2358), ci si trovano dentro, e l’unica “scelta” che rimane loro possibile è reprimere se stessi, o vivere quello che sono in modo serio e decoroso. Come? Siamo al terzo passo, che consiste nell’intendere la “relazione” tra le persone come una vocazione fondamentale nella vita, come qualcosa di cui è ben difficile fare a meno: “non è bene che l’uomo sia solo” (Genesi 2,18). Quando il card. Hume scrive che “L’amore tra due persone, siano dello stesso sesso o di sesso diverso, va apprezzato e rispettato”, o quando il card. Martini afferma che “le unioni omosessuali… possono giungere, a certe condizioni, a testimoniare il valore di un affetto reciproco”, essi esprimono esattamente quello che un po’ di anni fa non era così evidente: che cioè un rapporto omosessuale non è sempre e comunque perverso, ma che può essere addirittura una esperienza di “amore”.
Io mi fermo qui. Hume e Martini mettono precisi paletti alle loro affermazioni. Hume, ripetendo quanto dicono i documenti vaticani e lo stesso Catechismo già citato, ricorda che la pratica genitale va comunque esclusa da un rapporto omosessuale anche se questo è basato sull’affetto. Martini, nella prospettiva del valore sociale della famiglia (che era al centro del discorso da cui è stata tratta la citazione), dice che le unioni omosessuali “comportano la negazione in radice di quella fecondità che è la base della sussistenza della società stessa”: gli omosessuali non fanno figli, né, almeno da noi, possono allevare quelli degli altri. Rimane però l’affermazione sulla possibilità e sul valore di un amore/affetto omosessuale. E questo conta.
Si potrà forse fare un altro passo, il quarto. Lo fanno alcuni omosessuali che si ritrovano nei gruppi di gay credenti, così come, credo, tanti altri che hanno accettato di vivere seriamente la loro condizione. Il quarto passo è che in un rapporto serio, fedele e responsabile tra due omosessuali anche il corpo e il sesso hanno un loro significato “relazionale” per il loro potenziale di piacere, di conforto, di scioglimento delle tensioni. E insieme a questo sta la convinzione che proprio perché senza affetto è difficile vivere, e che dentro una relazione seria l’affetto va nelle due direzioni e diventa dono, perdono, capacità di sostengo e di sopportazione, anche una relazione omosessuale è in questo senso “feconda”: aiuta la persona a uscire da sé e la porta verso l’altro, e dunque la muove in ultima analisi verso Dio. Penso sia questo ciò che ha inteso il card. Hume quando scrive: “Amare un altro significa in realtà raggiungere Dio che è presente con la sua amabilità in colui che noi amiamo. Essere amato significa ricevere un segno, o una parte, dell’amore incondizionato di Dio”. Questo vale dell’amore sia eterosessuale che omosessuale.
Ciascuno potrà valutare, su questa traccia di “passi”, dove si colloca e a che punto è.
Per quanto riguarda le unioni omosessuali, personalmente mi pongo in una prospettiva pastorale: la “legge” mi interessa di meno, anche se sono sensibile alle osservazioni fatte da Gianni circa i benefici effetti di una regolamentazione di tali unioni. E dal mio punto di vista c’è una sola conclusione. Tocca alla comunità cristiana aiutare gli omosessuali a non aver vergogna di essere quello che sono, a sentirsi a casa loro dentro una parrocchia, a poter vivere serenamente le loro amicizie, che vanno incoraggiate e sostenute proprio per tutto il bene che ne deriva. Certo, l’ideale di una amicizia, o di un amore, serio, fedele e responsabile non è facile, e può anche darsi che sia ancora più difficile tra gli omosessuali, che obiettivamente mancano di quel collante che sono i figli e la stessa differenza sessuale. Ma come il numero dei fallimenti matrimoniali non ha mai fatto abbandonare una pastorale delle famiglie, così la difficoltà a costruire e mantenere amicizie omosessuali fedeli non deve farci rinunciare all’impresa. Resta pur sempre un nostro compito quello dell’accoglienza delle persone, e quello di aiutarle a costruire relazioni feconde e appaganti. Senza pretendere di imporre agli altri i nostri occhiali, ma mettendosi addosso quelli degli altri, per poter almeno capire, e, se possibile, agire di conseguenza.
Don Domenico Pezzini
Animatore del gruppo di cristiani omosessuali “La Fonte”, Milano