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giovedì 12 febbraio 2009

Domenica 15 febbraio 2009

VI^ del tempo ordinario B
Vangelo: Mc 1,40-45
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va', invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

Qual è il vero miracolo?

Gesù non voleva apparire come un mago. Semplicemente, era venuto a portare il Bene sulla terra e quando la sua compassione incontrava la fiducia di un malato, era spinto a restituirgli la salute. Questa volta, s’imbatte in un lebbroso. Quello che la Scrittura indicava come lebbra poteva essere una qualsiasi patologia della pelle, per cui esistevano delle leggi che ordinavano di presentarsi al sacerdote, per confermare la guarigione avvenuta e permettere così il reinserimento nella comunità. La lebbra, infatti, era in quel tempo una malattia incurabile. Il Signore chiede a quell’uomo di seguire le prescrizioni della legge, in modo da fare rientrare l’evento nella normalità, per non prestarsi a reazioni che si sarebbero fermate al suo potere taumaturgico, senza leggere il senso del segno che aveva compiuto.
Quello che gli esegeti chiamano “il segreto messianico”, cioè la costante raccomandazione di Gesù di tacere il miracolo, la sua attenzione a fuggire ogni manifestazione d’entusiasmo delle folle, era necessario perché la sua opera non fosse fraintesa. Forse ancora oggi stentiamo a credere in un Dio così umile da aver consegnato alla nostra compassione il male dei fratelli, affidandoci il compito di rivelarlo attraverso i nostri gesti di condivisione e d’amore.
Dio non è magico. Opera sempre in collaborazione con l’uomo. Non può agire là dove non c’è fede nel bene, che è sempre all’opera nella storia. L’evangelista Giovanni, infatti, non parla mai di “miracoli”, ma sempre di “segni”. Tutti i gesti del Signore hanno uno scopo di salvezza, non cercano di catturare la gente ma di portarla a cogliere la dinamica della sua vittoria sul male. Tuttavia, neanche quel lebbroso del vangelo riesce a percepire la raccomandazione di silenzio di Gesù e “divulga il fatto”. In fondo, non si fida veramente di chi l’ha risanato, quindi gli disobbedisce subito.
Il Signore agisce nel silenzio, ma l’uomo, troppo spesso incentrato su di sé, crede di fare bene testimoniando a destra e a sinistra il proprio incontro con Dio, il bene che scopre, le “grazie” ricevute, persino la sua guarigione fisica. Così facendo, si mette inconsapevolmente al posto dell’Altissimo. E’ di quella persona che si tratta e non dell’opera divina attraverso di lui o in lui. L’unica testimonianza valida, invece, ce l’ha indicata Gesù prima di morire: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). L’importante non sono i miracoli appariscenti ma l’unico vero miracolo è la capacità data all’uomo di amare “come il Signore ci ha amati”, lavorando quindi per la felicità dei fratelli nella quotidianità e nell’umiltà dei piccoli gesti, dell’attenzione, della compassione.

E.Marie

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