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giovedì 18 febbraio 2010

21 febbraio 2010 - 1a domenica di Quaresima C

Pane e giochi (Lc 4,1-13)
Dio non è come gli imperatori romani che addormentavano il popolo dandogli pane e giochi. Ci chiede invece di collaborare alla sua creazione, lavorando per portarla a compimento, e di completare ciò che manca alla passione di suo Figlio (cf. Col 2,24), lottando per trasformare il male in una dinamica di vita.
La tentazione fa parte di questo duplice compito lasciato all’umanità. L’uomo ha bisogno di essere messo alla prova (tale è il senso della parola “tentazione” in ebraico come in greco) per diventare se stesso. Se non dovesse lottare contro gli ostacoli, non crescerebbe mai, resterebbe là dov’è senza desiderare altro. Uno dei drammi della società opulenta non è forse quello di generare figli senza difese, proprio perché provvisti di tutto? “I miei non mi hanno fatto mancare niente, prima che potessi desiderare qualche cosa, già lo avevo”, diceva un giovane teppista.
Il male fa parte della vita, come l’ombra risponde alla luce. Il sogno di onnipotenza che pensa di colmare il vuoto inerente alla condizione di creatura con qualsiasi mezzo, dal denaro al sesso, dalla droga alla bulimia, è invece l’infantile rifiuto di crescere, di assumersi le proprie responsabilità. “L’uomo - come risponde Gesù al tentatore – non si nutre solo di pane”, ha bisogno di entrare in contatto con il proprio vuoto per trovare la sua dignità nel perseguire il bene, collaborando con il Creatore. Nel Padre nostro Gesù c’invita a chiedere al Padre di non farci entrare nella tentazione, cioè di non patteggiare con il tentatore, di non lasciarci ingabbiare dall’inganno; tuttavia non elimina certo la prova necessaria che lui stesso ha attraversato, come preparazione al suo ministero di salvezza.
Dopo la tentazione dell’onnipotenza, viene quella di un potere usurpato a Dio, prostituendosi a un idolo, cioè a qualsiasi persona o traguardo che si pone al posto del sommo Bene, dal quale si attende tutto. L’unico potere reale invece è la vittoria sul male, data a chi rimane con il Signore. Infatti, secondo il testo greco (che traduce il versetto del Deuteronomio citato da Gesù) la parola “servirlo” è tradotta con due verbi, di cui uno significa: “essere unito con”. Il servo, nella società ebraica, era l’alter ego del padrone. Gesù completerà questo concetto quando dirà: “Non vi chiamo più servi ma amici” (cf. Gv 15,15). Ora l’amico non tenta l’Amico, gli restituisce invece tutto quello che gli appartiene, senza volersene impadronire.
L’ultima tentazione è quella di risolvere i problemi della vita con prestazioni miracolistiche attraverso le quali Dio diventerebbe strumento della gloria umana. E’ quella della seduzione per giungere ai propri fini, persino con una preghiera magica, che pretende di piegare la realtà al proprio volere, mentre le leggi del creato sono lo spazio dove l’uomo trova la sua vera dignità, quella di figlio prediletto, al punto che gli angeli lo servono.
E.Marie

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