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venerdì 15 novembre 2013

Riflessioni di vari autori sulla Parola (XXXII domenica T.O.C.)


XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) – 10 nov. 2013


Prima lettura - 2Mac 7,1-2.9-14
In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite.
Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri».
[E il secondo,] giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna».
Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture.
Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».

Sal 16 - Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto.
Ascolta, Signore, la mia giusta causa,
sii attento al mio grido.
Porgi l’orecchio alla mia preghiera:
sulle mie labbra non c’è inganno.
Tieni saldi i miei passi sulle tue vie
e i miei piedi non vacilleranno.
Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio;
tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole.
Custodiscimi come pupilla degli occhi,
all’ombra delle tue ali nascondimi,
io nella giustizia contemplerò il tuo volto,
al risveglio mi sazierò della tua immagine.

Seconda lettura - 2Ts 2,16-3,5
Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.
Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno.
Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

Vangelo - Lc 20,27-38
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Sessualità, libertà e risurrezione – Emmanuelle Marie
Credere nella risurrezione dai morti non è facile, perché la natura umana è mortale. Il matrimonio è visto in questa parabola, proposta dai sadducei, come un combattere contro la morte: si tratta di suscitare una discendenza perché una stirpe non si spenga. La donna non esiste per se stessa, è funzionale a questa continuazione di un lignaggio. Importante non è la persona umana ma un nome, una discendenza. Infatti che valore ha l’essere umano per chi non crede nella risurrezione? È ridotto a servire ciò che durerà dopo la propria morte, è il semplice anello di una catena senza altro sbocco che questa vita.
Cristo è venuto invece a liberarci da questi pesi tramandati ossessivamente dalle civiltà, dai ceti sociali, dalle religioni. Per Dio è la persona che conta. Gli obblighi familiari, religiosi, sociali sono subordinati al valore della persona, la quale, creata a immagine del Bene, che non muore mai, è figlio, figlia del Dio eterno. La donna di questa parabola viene presentata come un oggetto appartenente a una famiglia e utilizzato per la sopravvivenza di quella stirpe. Ma per il Signore lei non appartiene a nessuno: è figlia di Dio. Nel regno nessuno appartiene a qualcun altro, “sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio”, cioè partecipi della Vita che non finisce, del Bene che dà senso all’esistenza.
La sessualità è il luogo dell’incontro tra due libertà, sia per amare sia per usare l’altro a servizio dell’egoismo. L’unica situazione in cui l’ebreo pio non deve recitare la preghiera dello Shema Israel, che scandisce tre volte la giornata, è la sera delle sue nozze, perché, dice il Talmud, in quel momento non è in grado di pregare con l’attenzione dovuta. Tuttavia si racconta che Gamaliele invece lo abbia recitato la sera del suo matrimonio, perché persino quella sera era capace di orientare tutte le sue forze a Dio. La sua unione con sua moglie era quella di un amore totalmente rispettoso dell’inalienabile libertà di entrambi, non oberava la sua per rivolgersi al Creatore.
Oggi molti rifiutano di sposarsi ufficialmente. Questa contestazione del sacramento è un messaggio che deve fare riflettere. Tanti matrimoni di fatto ma non di cuore, che hanno indotto i giovani a negare un’unione così formale, non sono forse anche dovuti a un’incredulità simile a quella dei sadducei? Solo l’amore di Dio, diffuso nel cuore del credente, può garantire un amore duraturo, quando sembra essere scomparso il semplice affetto o l’attrazione fisica.

Vivere da vivi - Paolo Curtaz

Il Levirato è una norma mosaica difficile da capire nella nostra sensibilità contemporanea. Talmente forte era il senso di appartenenza al clan famigliare, in Israele, che un cognato era tenuto a dare un figlio alla vedova del proprio fratello, se questi era morto senza lasciare discendenza. Il figlio nato dall'unione avrebbe preso il nome del defunto, garantendo una discendenza alla famiglia.
Questa norma, ancora praticata in ambienti ultraortodossi in Israele (Il tema è magnificamente e drammaticamente affrontato nel film Kadosh di Amos Gitai), dà l'occasione ai sadducei di mettere in difficoltà Gesù.
L'occasione – che novità – nasce da una discussione (benedette discussioni! Sciacquarsi la bocca per ascoltare il proprio ego mentre si parla e fare sfoggio di cultura, senza veramente mettersi in gioco, oggi come allora!) tra Gesù e i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l'ala aristocratica e conservatrice d'Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, cresciuta lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata solo al tempo della rivolta Maccabaica, di cui si parla nella prima lettura, un'inutile aggiunta alla dottrina di Mosé.
Così, incrociando la non condivisa teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato pongono a Gesù un caso paradossale, la famosa storia della vedova "ammazzamariti".
La vedova ammazzamariti
Il caso è ridicolo: una donna resta vedova sette volte, viene data in moglie a sette fratelli (sembra un musical!) ma non ottiene discendenza; una volta risorta, di chi sarà moglie?
Gesù pone sposta la questione su di un altro piano, invita gli uditori ad alzare lo sguardo da una visione che proietta nell'oltre morte, di fatto, le ansie e le attese della vita terrena.
È una nuova dimensione quella che Gesù propone: la resurrezione, in cui Gesù crede, non è la continuazione dei rapporti terreni, ma una nuova dimensione, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti (Nel regno ci riconosceremo, ma saremo tutti nel Tutto!), che contraddice la visione attuale della reincarnazione (siamo unici davanti a Dio, non riciclabili, e la vita non è una punizione da cui fuggire, ma un'opportunità in cui riconoscerci!), e ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo, non imbalsamato!
Viva Hallowen!
La scorsa settimana abbiamo celebrato la memoria dei nostri cari defunti, ahimé sovrapposta e confusa con la splendida e gioiosa Solennità dei Santi.
Il nostro tempo tende a dimenticare e banalizzare la morte: ogni giorno ci vengono proposte decine di morti, vere o finte, dagli schermi televisivi ma, in realtà, riflettiamo sulla morte solo quando ci tocca sulla pelle.
La tradizione di Hallowen, prepotentemente sbarcata in Europa e diventata – ovviamente – fonte di business, è una tradizione antecedente alla cristianità e che la cristianità ha "battezzato", facendo coincidere la festa celtica della fine dell'estate, con la riflessione sulla fine della vita.
La demonizzazione di tale festa non va esasperata, anche se il suo successo rivela che la nostra catechesi e predicazione sulla morte e sulla resurrezione risulta inadeguata e povera di linguaggi significativi e comprensibili.
Gesù crede fermamente nella resurrezione dai morti.
La Scrittura ha lungamente riflettuto sulla morte, giungendo alla dottrina dell'immortalità. Siamo stati creati immortali: il nostro corpo, da custodire e preservare, conserva una parte più spirituale, interiore, che i cristiani chiamano "anima". L'anima è la sorgente del pensiero, la custode dei sentimenti, la dimora della mia identità e diversità. L'anima sopravvive alla morte e raggiunge Dio, per presentarsi al suo cospetto.
Novissimi
Dio non ha che un desiderio: la nostra felicità, la nostra pienezza. Ma ci lascia liberi di scegliere. Questa vita, che ci è data per scoprire la nostra chiamata, per scovare il tesoro nascosto nel campo, può essere giocata nella consapevolezza e nell'amore di Dio, o nella dimenticanza.
Di fronte a Dio, se vorremo, ci verrà dato un tempo per imparare ad amare, il purgatorio, o verremo abbracciati e ricolmati dalla totalità di Dio, il paradiso, o – Dio non voglia – saremo liberi di rifiutare la luce, quello che noi chiamiamo "inferno", il luogo dove si tiene lontano Dio.
Al ritorno del Messia, nella pienezza dei tempi, ritroveremo i nostri corpi trasfigurati, che ora conserviamo con dignità in luoghi chiamati "dormitorio", in greco "cimiteri".
L'eternità è già iniziata, posso vivere e gioire di questa dignità, riconoscerla e svilupparla, o mortificarla sotto una coltre di polvere e preoccupazioni.
Siamo immortali, non aspettiamo di tirare le cuoia per pensare all'eternità che è già qui e ora!
Il Dio dei vivi
Il Dio di Gesù è il Dio dei viventi, non dei morti.
Io credo nel Dio dei vivi? E io, sono vivo?
Credo nel Dio dei vivi solo se la fede è ricerca, non stanca abitudine, doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere, slancio e preghiera, non rito e superstizione.
È vivo – Dio – se mi lascio incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, che, dopo il suo incontro con Cristo, ci dice che nulla è più come prima. Credo in un Dio vivo se accolgo la Parola (viva!) che mi sconquassa, m'interroga, mi dona risposte.
Credo nel Dio dei vivi se ascolto quanti mi parlano (bene) di lui, quanti – per lui – amano.
Un sacco di gente crede al Dio dei vivi e lavora e soffre perché tutti abbiano vita, ovunque siano, chiunque siano. Schiere di testimoni stanno dietro e avanti a noi. Come la madre della prima lettura che incoraggia i figli al martirio piuttosto che abiurare la propria fede, come i tanti (troppi) martiri cristiani di oggi vittime di false ideologie religiose, come chi opera per la pace nel quotidiano e nella fatica.
Sono vivo (lo sono?) se ho imparato ad andare dentro, se non mi lascio ingannare dalle sirene che mi promettono ogni felicità se possiedo, appaio, recito, produco, guadagno, seduco eccetera, se so perdonare, se so cercare, se ho capito che questa vita ha un trucco da scoprire, un "di più" nascosto nelle pieghe della storia, della mia storia.
Vogliamo anche noi diventare discepoli di un Dio vivo? Vogliamo – finalmente – vivere da vivi?

Non Dio dei morti ma dei viventi- padre Ermes Ronchi

I sadducei propongono a Gesù una storia paradossale per mettere in ridicolo l'ipotesi stessa della risurrezione. Ci sono molti cristiani come sadducei: l'eternità appare loro poco attraente, forse perché percepita più come durata che come intensità; come prolungamento del presente, mentre in primo luogo è il modo di esistere di Dio. C'erano sette fratelli, e quella donna mai madre e vedova sette volte, di chi sarà nell'ultimo giorno? Non sarà di nessuno. Perché nessuno sarà più possesso di nessuno.
All'inizio, nei sette fratelli preme un'ansia di dare la vita, un bisogno di fecondità. Alla fine, l'ansia umana diventa ansia divina quando Gesù afferma: e saranno figli di Dio, perché sono figli della risurrezione. In Dio e nell'uomo urge lo stesso bisogno di dare la vita, a figli da amare.
La fede nella risurrezione non è frutto del mio bisogno di esistere oltre la morte, ma racconta il bisogno di Dio di dare vita, di custodire vite all'ombra delle sue ali.
Quelli che risorgono non prendono moglie né marito, dice Gesù. In quel tempo sarà inutile il matrimonio, ma non inutile l'amore. Perché amare è la pienezza dell'uomo e la pienezza di Dio.
Saranno come angeli. Gli angeli non sono le creature gentili e un po' evanescenti del nostro immaginario. Nella Bibbia gli angeli hanno la potenza di Dio, un dinamismo che trapassa, sale, penetra, che vola nella luce, nell'ardore, nella bellezza. Il loro compito sarà custodire, illuminare, reggere, rendere bello l'amore.
Ogni amore vero che abbiamo vissuto si sommerà agli altri nostri amori, senza gelosie e senza esclusioni, donerà non limiti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità e di profondità. «Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi». Dio «di»: in questo «di» ripetuto cinque volte è contenuto il motivo ultimo della risurrezione, il segreto dell'eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appartengono a Dio. Così totale è il legame, che il Signore giunge a qualificarsi non con un nome proprio, ma con il nome di quanti ha amato. Il Dio più forte della morte è così umile da ritenere i suoi amici parte integrante di sé.
Dio di Abramo, di Isacco, di Gesù, Dio di mio padre, di mia madre... Se quei nomi, quelle persone non esistono più è Dio stesso che non esiste. Se quel legame si dissolve è il nome stesso di Dio che si spezza. Per questo li farà risorgere: solo la nostra risurrezione farà di Dio il Padre per sempre.

Don Giovanni Nicolini

Mi piace ricordare con voi che le parole che stiamo celebrando nella nostra preghiera in questi capitoli 20 e 21 vengono dette da Gesù nel tempio di Gerusalemme. Si collocano dunque nella memoria evangelica come l'apice e la sintesi del suo insegnamento. Controllate infatti quello che dice Luca 19,47 e, alla fine di questo lungo insegnamento, Luca 21,37-38. Così, tutto si raccoglie in unità profonda e meravigliosa.
In tal modo si illumina anche l'inserzione delle parole che oggi riceviamo dalla bontà di Dio e che prendono ricchezza di significato da quanto le ha precedute e da quanto ne seguirà. Si coglie bene come Gesù si manifesti come Colui che è venuto a dare volto definitivo alle grandi nozze tra Dio e l'umanità, secondo quanto è stato preparato dalla grande profezia di Israele e da tutto quello che Dio ha donato al popolo della Prima Alleanza. Quello che sembra essere oggetto di dibattito tra sadducei e farisei circa la risurrezione dei morti diventa sempre più chiaramente l'anima della vita nuova in Dio e con Dio. I figli di Dio sono "figli della risurrezione" (v.36) perché vivono ormai in piena comunione con Dio che "non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per Lui" (v.38).
Per questo si vede bene in tutto il nostro brano che il cuore del problema non è quello del matrimonio e della sua fecondità, ma è quello del significato profondo della nuzialità come immagine della comunione piena tra Dio e l'umanità. Anzi ormai bisogna dire che se non c'è risurrezione, non si pone neppure il discorso di Dio, perlomeno come ci è stato rivelato. La risurrezione non è solo la nostra sorte finale, dopo la morte, ma appunto la nostra condizione nuova di vita: figli della risurrezione. Noi nasciamo dalla risurrezione di Cristo, e viviamo la vita che è vita eterna, cioè vita con Dio.
 Si può fare anche un'osservazione sui termini adottati dal nostro testo per parlare del matrimonio. Quando al v.34 afferma che "i figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito" usa un verbo che fa riferimento all'unione sessuale e al dominio maschile; infatti alla lettera dice che i figli del mondo "prendono moglie e sono sposate", dove la forma attiva è detta del maschio e quella passiva è detta della femmina. Questo nell'uso più consueto di tale verbo. E questo fa capire perché al v.35 Gesù dica che "quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito". Le nozze cristiane non sono chiuse in se stesse, ma sono sacramento delle grandi nozze tra l'umanità e Dio nella persona del Cristo del Signore, Gesù, il Figlio di Dio.
Non mi pento della volta che interrogato da un papà circa la condizione del suo bambino morto, se era vivo, gli ho risposto, con parole banali, che ne ero certo perché Dio vuole bene al suo bambino e quindi non lo lascia cadere nella morte. E' quello che con parole sublimi Gesù dice ai vv.37-38 a proposito di Abramo, Isacco e Giacobbe.

A DIO NON MUOIONO I FIGLI - José Antonio Pagola. Trad. Mercedes Cerezo
Gesù è stato sempre molto sobrio nel parlare della vita nuova dopo la risurrezione. Tuttavia, quando un gruppo di aristocratici sadducei cerca di ridicolizzare la fede nella risurrezione dei morti, Gesù reagisce portando la questione al suo vero livello e facendo due affermazioni essenziali.
Innanzitutto, Gesù respinge l’idea puerile dei sadducei che immaginano la vita dei risorti come un prolungamento della vita che ora conosciamo. È un errore rappresentarci la vita risuscitata da Dio a partire dalle nostre attuali esperienze.
C’è una differenza radicale tra la nostra vita terrena e quella vita piena, sostenuta direttamente dall’amore di Dio dopo la morte. Questa Vita è assolutamente “nuova”. Perciò la possiamo attendere, mai però descrivere o spiegare.
Le prime generazioni cristiane hanno conservato un atteggiamento umile e onesto di fronte al mistero della “vita eterna”. Paolo dice ai credenti di Corinto che si tratta di cose che “occhio non vide né orecchio udì né mai entrarono in cuore di uomo; Dio le ha preparate per coloro che lo amano”.
Queste parole ci servono di sano avvertimento e di orientamento gioioso. Da una parte, il cielo è una “novità” al di là di qualsiasi esperienza terrena, ma, dall’altra, è una vita “preparata” da Dio per realizzare in pienezza le nostre più profonde aspirazioni. La caratteristica propria della fede non è soddisfare ingenuamente la curiosità, ma alimentare il desiderio, l‘aspettativa e la speranza fiduciosa in Dio.
È proprio questo che Gesù cerca appellandosi con tutta semplicità a un fatto accettato dai sadducei: nella tradizione biblica, Dio lo si chiama «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». Nonostante questi patriarchi siano morti, Dio continua a essere il loro Dio, il loro protettore, il loro amico. La morte non ha potuto distruggere l’amore e la fedeltà di Dio nei loro confronti.
Gesù ricava la sua conclusione facendo un’affermazione decisiva per la nostra fede: Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui. Dio è sorgente inesauribile di vita. La morte non lascia Dio senza le sue figlie e i suoi figli amati. Quando noi li piangiamo, perché li abbiamo perduti in questa terra, Dio li contempla pieni di vita perché li ha accolti nel suo amore di Padre.
Secondo Gesù, l’unione di Dio con i suoi figli non può essere distrutta dalla morte. Il suo amore è più forte della nostra estinzione biologica. Per questo, con umile fede osiamo invocarlo: “Dio mio, in Te confido; che io non sia confuso ” (salmo 25,1-2).

Th. L.

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