di Carlo Maria Martini
in “Il Sole-24Ore” dell’11 novembre 2007
Ho sempre pensato come italiano di appartenere a uno dei popoli meno razzisti della terra e questo per motivi storici, culturali,religiosi, eccetera. Questo non vuol dire che quando accade un episodio gravissimo di violenza, soprattutto da parte di immigrati irregolari, non si alzi un coro di voci per deprecare quanto è avvenuto e per invocare più rigorose misure di sicurezza. Come dice il Salmo, siamo ben convinti che nei momenti di transizione, quando non sono tenuti saldamente in mano, «emergono i peggiori tra gli uomini» (Sal 12,9). Ma nell'insieme abbiamo una visione degli altri popoli che non avrei esitato a qualificare come non razzista. Ora tuttavia la mia sicurezza si è incrinata leggendo le interessanti interviste di Rula Jebreal pubblicate sotto il titolo significativo «Divieto di soggiorno». Ecco quanto afferma per esempio un immigrato che pure si può considerare un «caso riuscito» di integrazione, essendo oggi impegnato in politica e con un insegnamento universitario: «Gli italiani provano indifferenza verso tutto ciò che è diverso, hanno una sorta di pigrizia mentale, una mancanza di volontà di comprendere l'immaginario altrui». Come può questo giudizio andare d'accordo con la scontata affermazione di un altro immigrato riuscito: «Gli italiani sono brava gente. I media, la televisione, continuano a parlare di conflitto tra stranieri e italiani, ma la realtà di tutti i giorni è diversa. Quando hanno a che fare con te direttamente, nel rapporto faccia a faccia, gli italiani si comportano bene, come con un loro pari»? Probabilmente c'è un po' di verità in entrambi i giudizi. Ma tutto ciò mette in luce la gravità e l'urgenza del problema affrontato nel libro di Rula Jebreal, cioè quello dell'integrazione ben regolata di milioni di immigrati, oggi e tanto più nel futuro. Possiamo infatti parlare di un problema minaccioso che si sta affacciando ai confini dell'Europa e rischia di causare una forte divisione, una spaccatura di animi e di intenti. Non v'è luogo, per quanto piccolo e nascosto, che potrà venir risparmiato da questa prova. Essa consisterà nella nostra capacità di vivere insieme come diversi, non solo di lingua, di cultura, di abitudini, di religione, ma anche differenti nelle sensibilità inconsce, nelle simpatie o antipatie, nel modo di concepire la giornata e la vita. Qualcosa di simile si è sempre avuto nella storia dell'umanità, ma lo stare gomito a gomito con un numero crescente di "diversi" sta diventando un fatto che sempre più condizionerà la nostra vita quotidiana e il nostro lavoro. Ad esso si può reagire in vari modi: o deprecando il fatto che non sia ormai possibile fare a meno di chi viene a turbare la nostra quiete e preoccupandosi di stabilirgli delle zone in cui egli ci è utile o addirittura necessario e altre in cui vogliamo essere lasciati in pace; o demonizzando la sua cultura e le sue tradizioni, curando di lasciar entrare tra noi il meno possibile della identità di queste persone. In ogni caso anche un atteggiamento che possa essere definito "buonista", ma nasca da uno spirito seccato e un po' malmostoso, tende a chiudere queste persone in ghetti che a lungo andare diventano pericolosi focolai di malumore e di ribellione. Si prospetta così il fantasma di un "clash of civilations" (scontro di civiltà) che alcuni ritengono far parte di un inevitabile futuro del mondo europeo. Eppure sono convinto che non solo è possibile e doveroso fare di tutto per evitare questo "scontro di civiltà" , ma che occorre dimostrare che noi cresciamo e maturiamo proprio nel "confronto col diverso". Ciò avviene quando esso è visto non soltanto come accettazione necessaria di un fatto inevitabile e neppure come semplice tolleranza e rispetto per le abitudini altrui, purché non siano offensive del bene comune, e neppure come volontà di assimilazione o di conversione. C'è al di sotto di tutto un dovere reciproco di vivificarci e stimolarci a vicenda vivendo quegli atteggiamenti di rispetto, di gratuità, di non preoccupazione del proprio tornaconto o della propria fama, di accoglienza e perdono, che caratterizzano ad esempio il discorso della montagna di Gesù (Matteo capitoli 5-7) e che sono capiti da tutti e utili a tutti. C'è poi un discorso ancora preliminare a questo, e il libro di Rula Jebreal ci aiuta a entrare nella dimensione giusta: quella di non giudicare e di non condannare subito, ma anzitutto di ascoltare con simpatia e cercare di comprendere con oggettività l'esperienza e la storia dell'altro.
Questo libro presenta una dozzina di interviste a persone straniere venute in Italia per i più diversi motivi. Alcune sono riuscite a inserirsi con soddisfazione nel nostro tessuto sociale, altre invece hanno fallito. Particolarmente commovente è la storia della piccola prostituta Olga, che non vede l'ora di ritornare a casa dopo aver sfruttato la situazione e essersi lasciata sfruttare fino alla perdita di ogni senso della dignità umana. Rula Jebreal scrive come una vera giornalista, che sa raccontare e coinvolgere ma senza inserire le proprie emozioni o forzando il discorso. Ci insegna che occorre soprattutto cercare di capire, ascoltare, comprendere le motivazioni e le situazioni: solo dopo è possibile vedere il da farsi. Ci auguriamo di essere in molti a capire questa lezione di giornalismo e di vita, così che il peso di questa inevitabile transizione verso una nuova società, quasi un nuovo "meticciato", diventi non solo più sopportabile per tutti, ma sia fonte di nuove scoperte sulla ricchezza della nostra umanità.
Questo libro presenta una dozzina di interviste a persone straniere venute in Italia per i più diversi motivi. Alcune sono riuscite a inserirsi con soddisfazione nel nostro tessuto sociale, altre invece hanno fallito. Particolarmente commovente è la storia della piccola prostituta Olga, che non vede l'ora di ritornare a casa dopo aver sfruttato la situazione e essersi lasciata sfruttare fino alla perdita di ogni senso della dignità umana. Rula Jebreal scrive come una vera giornalista, che sa raccontare e coinvolgere ma senza inserire le proprie emozioni o forzando il discorso. Ci insegna che occorre soprattutto cercare di capire, ascoltare, comprendere le motivazioni e le situazioni: solo dopo è possibile vedere il da farsi. Ci auguriamo di essere in molti a capire questa lezione di giornalismo e di vita, così che il peso di questa inevitabile transizione verso una nuova società, quasi un nuovo "meticciato", diventi non solo più sopportabile per tutti, ma sia fonte di nuove scoperte sulla ricchezza della nostra umanità.
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